Toccare il cielo con un dito: i grattacieli di Milano dove poter sentire più vicino il mio Papà

Toccare il cielo con un dito: i grattacieli di Milano dove poter sentire più vicino il mio Papà

3 Settembre, 2021 0 Di Marcella Gaudina

Nella giornata mondiale dei grattacieli, che cade proprio oggi, 3 settembre, avrei voluto portare i miei lettori/ospiti, come forse sarebbe stato doveroso nei loro confronti e perché no, anche nei miei (come giornalista bucare una notizia non è molto professionale), alla scoperta degli edifici più alti ed avveniristici di Milano. E credetemi il pezzo sarebbe stato molto “ricco” perché a Milano di edifici alti ce ne sono, eccome. A dir la verità l’articolo l’avevo già buttato giù, avevo anche già scelto le foto, tutte scattate da me, a ricordo di un bellissimo sabato pomeriggio trascorso come turista nella mia città, ed l’avevo messo addirittura in stage, pronto per l’ultima stesura, ma poi, non avendo il tempo di scriverne un altro lo stesso giorno o comunque uno a ridosso dell’altro (il tempo mi manca sempre, ma c’è chi del mestiere potrebbe obiettare che certi articoli, non legati strettamente legati alla cronaca, si possono preparare con largo anticipo, di solito in questi casi si usa dire “mettere fieno in cascina”), ho maturato l’idea, anche se forse sarebbe più corretto dire ho sentito l’esigenza, anche influenzata dalla lettura odierna di un articolo sul Corriere.it dedicato all’ultima fatica cinematografica di Paolo Sorrentino , «È stata la mano di Dio», in questi giorni in gara al Festival del Cinema di Venezia, di raccontare com’è stato quest’anno senza il mio Papà (oggi alle 16.17 sarà un anno che è mancato al mio affetto) e per, usare le parole del regista napoletano, che nel film rielabora la scomparsa improvvisa della madre e del padre per un fuga di monossido nella loro casa di villeggiatura (il giovane Paolo Sorrentino, all’epoca 16enne, si salvò solo perché chiese ai genitori di restare a Napoli per vedere Maradona in TV), “condividere la sofferenza a metà” e fare un bilancio su quel che resta dopo la perdita di una persona cara, com’è stato per me il mio papà Savino. E lanciare nonostante tutto un segnale di speranza a chi vive un lutto (da quando è morto mio padre ho la sensazione non di vivere, ma di sopravvivere, ma non mollo).

A volte penso che per sentire più vicino a me il mio Papà dovrei salire su uno dei tanti grattacieli che svettano nel cielo di Milano. Penso alla Torre UniCredit che con i suoi 231 metri si è guadagnata il primato di edificio più elevato in base all’altezza strutturale o alla Torre Allianz che grazie ai suoi 209 metri e 50 piani è invece il palazzo più alto per numero di piani e detiene anche il titolo di grattacielo più alto secondo i criteri highest occupied floor e height to tip, con 249 metri d’altezza (compresi i 40 metri di antenna Rai). Poi la sera mi è sufficiente affacciarmi dal balcone della cucina di casa mia (un misero secondo piano), alzare gli occhi al cielo e cercare la luna, per ritrovarlo. A differenza però degli innamorati che, quando sono lontani dalla loro dolce metà, guardando la luna immaginano di essere meno distanti (“Se anche tu vedi la stessa luna, non siamo poi così lontani”), io immagino che il mio Papà nel suo viaggio nell’aldilà sia giunto proprio lì e da lì mi/ci guardi (del resto Astolfo, ne L’Orlando il furioso, non si recò sulla luna per recuperare il senno di Orlando e porre così fine alla guerra?).

E se una sera la luna proprio non ha alcuna intenzione di farsi vedere da me? Aspetto la sera successiva anche perché so che il mio Papà non mi abbandonerà mai, anzi non mi ha proprio mai lasciato. Da quando è mancato sono state tante le volte in cui l’ho sentito vicino a me. Se siete persone sensibili come lo sono io o con una grande capacità di ascolto, in grado di cogliere anche i minimi dettagli e con un approccio alla vita che va ben oltre la dimensione terrena, vi assicuro che non vi sentirete mai orfani o soli.

Dopo che il mio Papà ci ha lasciati, per mesi, anche a causa della situazione sanitaria che la pandemia aveva creato (penso, nel mio caso, all’impossibilità di stargli vicino nel suo ultimo mese di vita, quando era ricoverato all’ospedale), mi sono letteralmente tormentata interrogandomi se avessi fatto abbastanza per lui. Ogni notte (la notte era ed è ancora il momento più duro di tutte le mie giornate, da quel 3 settembre del 2020), riavvolgevo il nastro del nostro ultimo anno di vita vissuto sotto lo stesso tetto (ovvero casa mia), un po’ per non dimenticarlo e un po’ per capire se avessi fatto veramente tutto il possibile. Questo era per me anche il momento per far riaffiorare i bei momenti trascorsi assieme: le nostre chiacchierate davanti a un caffè o seduti su una panchina del giardino di via Boeri, io che ti facevo la barba e tu che ti lamentava che non era mai perfetta, io che ti portavo dal barbiere per farti tagliare i capelli, ecc. Il giorno successivo, a una di quelle sere, mentre stavo sfogliando l’agenda in cerca di un appunto di lavoro, per puro caso atterro su una frase che avevo a suo tempo scritto e che in un certo senso mi “scagionava”. Sai Papà, sono sicura che sei stato tu dalla luna a farmi trovare quelle poche parole, che mi ero appuntata, dopo aver avuto un consulto col medico dell’ospedale dove eri all’epoca ricoverato, per togliermi un peso dal cuore. Grazie!

Altre notti, invece, mi è capitato di domandarmi se mi avesse voluto veramente bene. Il mio Papà è sempre stato un tipo molto taciturno e poco incline a condividere, anche in famiglia, i suoi sentimenti. Non credo che abbia mai detto a mia mamma “Ti Amo”, ma sono sicura che gliel’abbia dimostrato ogni giorno trascorso assieme. Non era poi tipo d’abbracci o coccole. Così, come se fosse oggi, ricordo quando avrei voluto, mentre eravamo in sala d’attesa al Pronto Soccorso del San Paolo ed io ero seduta di fianco a lui, che portasse la sua mano sul mio viso e me lo accarezzasse. L’ho desiderato così tanto che, sull’onda del carpe diem, gli presi la mano e me la portai sul mio volto. In quell’occasione, ma anche in altre, mi domandavo spesso come non gli venisse spontaneo, proprio perché ci vedeva pochissimo, di avvicinare le sue mani ai nostri volti. Ma non solo. Durante il suo soggiorno da me, nonostante facessi di tutto per lui, ma veramente di tutto, rimanevo sempre delusa del fatto che non mi regalasse mai un sorriso. A posteriori, credo che il mio Papà abbia voluto farsi perdonare queste carezze e sorrisi mancati riportandomi alla memoria, in un di quelle notti insonni, l’ultima volta che ci siamo visti (da lì a tre giorni sarebbe poi morto) e la sua mano stringeva la mia. Quella stretta di mano, che solo dopo mesi ho ricordato e che al momento non gli ho dato il giusto peso, l’ho interpretato come il suo modo di dirmi che avevo fatto tutto il possibile e che mi voleva bene. Grazie!

Ma non finisce qui. Spesso mi sono domandata se mai mi avesse abbracciato, fatto sentire importante per lui. Ed ecco che un giorno passo davanti a una foto, anzi per essere corretti a una cornice gigante con tante piccole cornici che tengo in camera da letto, su cui da tempo non mi soffermavo più, forse perché appesa al muro da diversi anni, e mi casca l’occhio proprio su una delle 7 foto che ci ritraggono felici, in momenti diversi, ad Agliè, da soli o in compagnia dei nostri cugini, e mi accorgo che… sì qualche abbraccio me lo avevi regalato. Ancora grazie Papà per questo tuo nuovo regalo, che mi riscalda il cuore e placa i miei tormenti.

E non è tutto. C’è stata quella volta in cui gli ho chiesto di mandarmi un segnale. Avevo un colloquio di lavoro e domandai a mio Papà di farmi capire, messa di fronte a un bivio, quale strada prendere. Se pensate che non mi abbia ascoltata, vi sbagliate. Anche in questa occasione mio Papà mi ha sentito e indicato cosa fare. Così, lo dico anche a te Papà, anche immagino tu lo sappia già, sono tornata a scrivere…. documenti tecnici, ma è bellissimo.

Tra i pensieri dolori che affollavano la mia mente c’era anche quello di averti/avervi strappato via dalla vostra casa, da Albenga, di avervi costretti a fare i bagagli e partire. Ricordo ancora quel giorno. Appena dimesso dall’ospedale ti ho fatto salire in auto, siamo andato a prendere la mamma, ho caricato i bagagli (tu non sei neanche salito in casa per un ultimo saluto, eri troppo debole), abbiamo salutato i vostri vicini di casa (non immagini quanto mi abbia fatto piacere constatare tutto l’affetto che avevano nei tuoi/vostri confronti), da consigliere hai fatto un breve passaggio di consegne e poi via in direzione Milano. Tanto tempo dopo ho saputo dalla zia Lucia che avete sempre rimandato l’idea di trasferivi a Milano con l’idea che sarebbe potuto essere sufficiente che io, come la figlia di Gianni Pettenati, il cantante di “Bandiera Gialla”, che abita nel palazzo di fronte a vostro, vi venissi a trovare ogni weekend. Quando l’ho saputo non nascondo di essermi sentita una figlia degenere. Quale brava ragazza strapperebbe mai i suoi genitori ormai anziani dalla loro casa. Ovviamente nessuna. Ma il mio Papà lo ha saputo e ha cercato di rimediare. E’ successo così che mia madre ed io, quando siamo tornate ad Albenga, la prima volta dopo la sua morte, mia mamma mi racconta di aver incontrato proprio la figlia di Pettenati e di averle chiesto come facesse a trovare il tempo di venire ad Albenga da Milano, ogni weekend, ad aiutare il suo papà nelle faccende domestiche e varie commissioni. La sua risposta, che in realtà era per me, fu illuminante: le disse che era single e come giornalista poteva lavorare anche lontano da casa. Non immaginate il mio sollievo.

Gli aiuti del mio Papà non sono ovviamente finiti qui. In questi 12 mesi mi ha indirizzato su quale nuova automobile comprare (per la cronaca la 500X Sport) e se imbarcarmi nella ristrutturazione della casa al mare (un giorno mi capitò di impigliarmi nella maniglia della porta a soffietto della cucina e di rompere un pezzo della stessa. Interpretai l’accaduto come se mio Papà avesse voluto, facendomi toccare la spalla contro la porta, attirare la mia attenzione e farmi capire che se la maniglia si era rotta a causa di quell’urto significava che forse era giunta l’ora di ristrutturare casa). Per la cronaca Papà, i mobili del soggiorno della casa al mare, che erano poi quelli che avevate comprato appena sposati tu e la mamma, oggi sono in bella mostra nell’appartamento che affittiamo a Milano e la mamma ha detto che tu saresti contento di sapere che li ho tenuti e, aggiungo, anche valorizzati (Davide ed io li abbiamo tirati a lucido). Ti farà anche piacere sapere che riguardo al materasso, che ho traslocato insieme a mobili della sala e al letto, la mamma ha detto che “se potesse parlare ne avrebbe di cose da raccontare”.

A posteriori, ora una cosa, che qualche giorno fa ho condiviso con Davide parlando delle stranezze della vita e del rapporto genitori-figli (per la cronaca Giulio ha un bellissimo rapporto con la nonna), vorrei dirtela io. Ti ricordi Papà quando la domenica mattina andavamo a far colazione al bar Zerbino di Alessandra, quello dei giardini pubblici davanti alla Stazione di Alessandria, e tu ogni volta mi invitavi a leggere l’articolo di fondo pubblicato su La Stampa dicendomi che era ben scritto e che mi avrebbe solo aiutato a comprendere meglio il mondo. Beh, se te lo ricordi ricordi anche che io snobbavo sempre il tuo consiglio, un po’ come fa oggi Giulio con i miei, ma la cosa più ridicola è chi l’avrebbe mai detto che quella bambina ,che non ne voleva sapere di leggere il quotidiano, alla fine sarebbe diventata una giornalista e per giunta professionista! Io no, ma grazie papà per avermi indicato la strada.

Ciao Papà, ti voglio bene e sei sempre nelle mie preghiere.